MARCELLO MALOBERTI, METRONOTTE

A cura di Giulio Dalvit
Performance per una notte
Dalle ore 18:00 del 17/07 alle ore 09:00 del 18/07

Una parola sola — scritta male, da un bambino dalla grafia ancora incerta: “DIO”.

Al centro della navata, distesa a terra, quasi precipitata. Non incisa, non scolpita, non proclamata, ma tracciata in luce. Una luce incerta come l’alfabeto che la compone. Neon azzurro, gas naturale. La trasparenza del tubo non nasconde nulla: il meccanismo è esposto, fragile, meccanico. La scritta si accende finché la batteria regge, poi si spegne.

Non è difficile leggere in questa scena un’allegoria dell’apparizione del divino come evento precario — quella Conversione di San Paolo tanto cara a Marcello Maloberti. Ma sarebbe forse più preciso parlare di un corto circuito tra sacro e tecnologia, tra infantile e industriale, tra spiritualità e consumo. DIO a batteria è tutto lì, sospeso tra ironia e malinconia.

Maloberti non costruisce un’icona; semmai, organizza una soglia. Una soglia tra ciò che chiede silenzio e ciò che richiede manutenzione. La performance — che dura una sola notte — non serve a enfatizzare il carattere effimero dell’opera, quanto a iscriverla nel tempo come condizione: non l’“evento irripetibile” di tanta produzione culturale da due soldi, ma un esercizio di durata e concentrazione.

E poi ci sono loro, i metronotte, in divisa, con le loro auto. Nessun gesto teatrale. Nessun commento. Sono lì per controllare, ma non guardano. Custodi? Sentinelle? Figure funzionali. Più che attori, indici di preziosità.

La loro presenza introduce una postura intellettuale verso l’opera: il corpo regolato e funzionale di chi è addestrato a sorveglia- re, osservare, solo raramente a intervenire. Si tratta di vigilare su qualcosa che si consuma. Di garantire la sicurezza di una luce che non è eterna, di un divino — tutto novecentesco — che non aspira neanche ad esserlo, eterno.

In questa triangolazione — parola, luce, sorveglianza — si condensa l’intervento. Non c’è simbolismo, ma c’è una grammatica. Non c’è spiritualismo, ma c’è una pausa sulla soglia tra ciò che si crede e ciò che si vede. Il fatto che il neon ricalchi il tratto incerto di un bambino non introduce solo un registro emotivo, ma attiva nuova forza semantica: è il gesto non addestrato a dire ciò che, per definizione, non si potrebbe nemmeno tentare di racchiudere in una scritta (e infatti, in molte culture, non si fa): l’ineffabile.

Il dispositivo funziona come un paradosso: la sacralità non è prodotta dal contesto (una chiesa sconsacrata), né dal soggetto (la parola “DIO”), ma dal fatto stesso di dover essere continuamente riattivata, rifinanziata, riparata.

È in questa logica — intermittente, instabile, sorvegliata — che METRONOTTE trova la sua forza. Non nel dichiarare, ma nel sostenere una condizione: quella di una ricerca, e quindi un’assenza, che domanda sempre una forma. E che forse, per un attimo, riesce a brillare.

Testo di Giulio Dalvit

Marcello Maloberti
Marcello Maloberti

Marcello Maloberti (Codogno, Lodi, 1966) è un artista visivo di base a Milano. È docente di cattedra di Arti Visive alla NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, Milano. Lavora con la Galleria Raffaella Cortese dal 1999. La sua ricerca trae ispirazione da aspetti propri delle realtà urbane più marginali e minime con particolare attenzione all’informità e alla precarietà del vissuto. La sua osservazione va oltre l’immediatezza della dimensione quotidiana, con uno sguardo neorealista straniante e onirico, combinato a un approccio archeologico alla storia dell’arte.

Le performance e le grandi installazioni sonore e luminose, dal forte impatto teatrale, vengono realizzate sia in spazi privati che pubblici prediligendo sempre l’interazione con il pubblico. Questi interventi funzionano come narrazioni contratte, sono atmosfere da vivere ed esperire, temperature emotive da attraversare. Il corpo performante è quello della collettività, capace di produrre un dialogo tra la performance stessa e il suo pubblico. Negli ultimi anni Maloberti ha approfondito il binomio arte/vita utilizzando una coralità di linguaggi sia visivi che sonori – fotografia, video, performance, installazione, oggetti e collage – sempre attraversati e potenziati da una forte performatività.